Pensione integrativa: cos’è, come si costruisce
Per molti dei giovani di oggi il futuro pensionistico è una grande incognita. Non è un caso che proprio dopo la riforma del sistema pensionistico, che ha visto la progressiva uscita di scena del calcolo contributivo, negli anni ’90 sia stata introdotta in Italia la pensione integrativa, ossia la possibilità per i lavoratori di aderire a fondi pensione o a piani individuali pensionistici, per ottenere a fine carriera un reddito aggiuntivo.
Per i lavoratori dipendenti può trattarsi di destinare al fondo o al piano pensionistico le quote di TFR che il datore di lavoro accantona ogni anno, a cui eventualmente si possono aggiungere piccole percentuali della propria retribuzione. In alternativa, il lavoratore dipendente può anche aderire con soli contributi volontari. Per tutti gli altri, invece, i versamenti sono volontari.
La pensione integrativa offre molti vantaggi, in primo luogo perché consente di ottenere, una volta usciti dal mondo del lavoro, un importo mensile che si va ad aggiungere a quello erogato dall’Inps o dagli altri enti previdenziali. Per incoraggiare i lavoratori a scegliere questa opzione, il legislatore ha previsto incentivi fiscali che rendono questo strumento più conveniente rispetto a un tradizionale investimento finanziario, tra cui una tassazione agevolata, a cui si aggiunge la possibilità di dedurre dall’imponibile le somme versate annualmente, fino a un massimo di 5.164,57 euro.
I numeri: solo uno su tre sceglie il fondo pensione
Nonostante le agevolazioni previste, lo strumento della pensione integrativa è ancora poco utilizzato nel nostro Paese. Secondo i dati pubblicati nell’ultima relazione del Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, il totale degli iscritti alla previdenza complementare in Italia sfiora i 10 milioni, pari al 38,3% della forza lavoro. Di questi solo il 19,9% aveva a fine 2024 meno di 35 anni. Una conferma, quest’ultima, che i più giovani (under 35) non pensano alla pensione, o non hanno ancora un’occupazione o una retribuzione tale che gli permette di destinare del denaro al loro futuro.
A questo proposito, un altro dato interessante che emerge dal report Covip riguarda i cosiddetti 'altri iscritti', che nel 2024 ammontano a circa 1,437 milioni di persone. In questa categoria rientrano non solo i soggetti “fiscalmente a carico”, spesso giovani a cui i genitori aprono una posizione previdenziale ancora che la loro carriera lavorativa abbia inizio, ma anche chi ha perso i requisiti di partecipazione a causa di un cambio di lavoro o del pensionamento.
Esistono però altri modi per integrare le entrate nel futuro, da abbinare al fondo pensione, o da “sostituire”, se l’età ormai avanzata mal si concilia con l’idea di un investimento a lungo termine.
Vediamo allora pregi e difetti di questi strumenti e come utilizzarli al meglio.
Il TFR in azienda, vantaggi e svantaggi
Molti, in modo particolare i lavoratori di età più avanzata, fanno affidamento sul TFR per avere un piccolo tesoro a cui attingere dopo l’uscita dal lavoro. Se un tempo la “buonuscita” veniva spesso utilizzata per pagare il matrimonio o la casa ai figli, oggi è per molti una sorta di salvagente o una somma da investire.
Come dimostrano anche alcuni sondaggi, il TFR è considerato da molti lavoratori un “luogo” sicuro: le somme depositate presso il datore di lavoro vengono rivalutate ogni anno dell’1,5%, a cui si aggiunge una quota pari al 75% dell’inflazione annua.
Una volta ottenuto il tesoretto si può decidere di investirlo in un prodotto finanziario che restituisca delle cedole annuali, ma bisogna tenere presente che chi non ha un orizzonte temporale molto lungo generalmente non può aspirare a rendimenti alti, che sono fisiologicamente collegati a tipi di investimento più rischiosi.
Il consiglio, in questo caso, è di affidarsi ad un buon consulente finanziario, che sulla base del valore della somma a disposizione, delle caratteristiche individuali e degli obiettivi finanziari, saprà consigliare al meglio il risparmiatore.
Ad ogni modo, chi è intenzionato a lasciare il TFR in azienda dovrà considerare anche altri elementi. Al momento di riscuotere le somme, infatti, gli importi maturati a titolo di TFR sono soggetti a un’imposizione fiscale molto alta, che parte dal 23%, e varia a seconda del reddito degli ultimi 5 anni. È inoltre erroneo considerare il TFR uno strumento “blindato” dal punto di vista della sicurezza: lasciando i propri risparmi nelle mani di un unico soggetto, si va incontro, infatti, al cosiddetto rischio di credito, e cioè il rischio che chi detiene i nostri capitali vada in default.
Vero è che l’Inps ha un Fondo di garanzia per il TFR e la liquidazione dei crediti di lavoro e si fa carico in questi casi di corrispondere ciò che spetta ai lavoratori, ma prima di valutare questa strada è sempre consigliabile indagare anche sulla solidità dell’impresa per cui si lavora.
Il mattone, meglio guardare in prospettiva
Nonostante le basse retribuzioni, le incertezze e l’alto costo della vita, le generazioni nate dagli anni ’80 in avanti si troveranno comunque a beneficiare nei prossimi anni di un consistente trasferimento di ricchezza da parte dei genitori.
Da una proiezione de Il Sole 24 Ore, elaborata su dati forniti da Banca d’Italia, Istat e Ministero della Giustizia, emerge che entro il 2030 le risorse che andranno nelle tasche e nei conti correnti delle giovani generazioni (Millennials e parte della Generazione Z) ammonteranno a circa 1.125 miliardi e saranno rappresentate soprattutto da lasciti immobiliari (in Italia circa il 77% delle famiglie vive attualmente in una casa di proprietà). Saranno gli immobili ricevuti in eredità, per l’appunto, a risollevare la situazione di molti, e non è sbagliato pensare alla casa di famiglia come a uno strumento da mettere a reddito, per avere un’entrata mensile aggiuntiva.
Anche in questo caso, però, occorre fare delle valutazioni. Non è detto, infatti, che la casa sia un asset privo di rischi, che mette al riparo da perdite. Un appartamento che oggi ha una determinata quotazione non necessariamente manterrà inalterato il suo valore nel tempo, o sarà facilmente liquidabile in caso di necessità.
Il mercato immobiliare cresce lentamente per definizione, al di là dei picchi degli ultimi anni che hanno riguardato soprattutto alcune grandi città, e va considerato che, in futuro, un immobile comprato 30-40 anni fa potrebbe richiedere importanti ristrutturazioni e lavori di manutenzione, come quelli richiesti per l’adeguamento alle nuove normative sulla classificazione energetica.
Anche in questo caso, la mossa più utile è fare una stima realistica, non badando al valore affettivo o al costo iniziale di acquisto, del valore attuale dell’immobile, per avere un’idea del prezzo a cui quel bene può essere venduto. Una volta ottenuto quel dato, si passa poi a quantificare la possibile rendita annua, si calcola cioè quanto si otterrebbe dandolo in locazione, al netto delle tasse e degli eventuali costi.
Se, per esempio, al termine dei conti, emerge che quell’appartamento renderà il 3-4%, la domanda da porsi è se esistono investimenti che possano offrire un rendimento migliore. Va però ricordato che il confronto non è sempre immediato: il rischio legato a un immobile non è identico a quello di un titolo finanziario o di un altro strumento di investimento e richiede valutazioni più articolate. In ogni caso, se si ritiene che il valore della casa sia ben più alto rispetto alla sua effettiva capacità di produrre reddito, può essere opportuno valutare l’ipotesi di venderla, smobilizzare quindi il capitale e investirlo in altre direzioni.
Se l’obiettivo è avere una piccola rendita integrativa futura, ci si può rivolgere ad un consulente o valutare l’ipotesi di acquistare un’altra tipologia di immobile, che per caratteristiche o posizione garantisce un rendimento maggiore.
Gli investimenti finanziari: meglio diversificare
Se già si possiede un capitale o un tesoretto, l’idea di metterlo a “frutto” guardando al futuro non è affatto negativa. Anche in questo caso, è utile sedersi di fronte a un consulente e farsi consigliare una strategia di lungo periodo.
Naturalmente, il consiglio principale, oltre a quello di scegliere prodotti con un rischio adeguato al proprio profilo, è quello di diversificare, e cioè puntare su strumenti diversi tra loro, con un occhio anche ai costi. Il consiglio generale, ad ogni modo, è di frazionare il patrimonio, scegliendo tra prodotti facilmente liquidabili (in modo da avere a disposizione denaro in caso di necessità, senza dover pagare penali o subire perdite dovute a oscillazioni di mercato), prodotti più sicuri e altri a più alto rendimento (e quindi per definizione più volatili).
Se l’obiettivo è la pensione, e quindi si ha un orizzonte temporale medio lungo, si può osare di più, ma con consapevolezza: è bene essere certi che non ci si lascerà spaventare da scossoni e fluttuazioni di mercato, e anche in fasi di turbolenza non ci si farà prendere dal panico, ma si aspetterà che torni il sereno.
Un altro suggerimento è quello di monitorare annualmente l’andamento degli investimenti, per rivedere la strategia sulla base dei trend di mercato. E magari, un paio di anni prima del momento di ritirare il denaro, spostare le risorse su asset più solidi e meno volatili.
Infine, è bene sapere che anche sugli investimenti pesa il tema dell’imposizione fiscale. I rendimenti finanziari sono tassati al 26%, con l’unica eccezione dei titoli di Stato italiani e dei Paesi che sono nella cosiddetta “white list”, perché hanno un adeguato scambio d'informazioni con l’Italia, che sono sottoposti a tassazione del 12,5%.
E chi non ha capitali? In aggiunta al fondo pensione o al piano pensionistico, può valutare un piano di accumulo capitale, che ha il vantaggio di poter essere alimentato anche da piccole cifre versate periodicamente. La tassazione sui rendimenti, come abbiamo visto, sarà ben più alta, pari al 26%, ma si può puntare su questi strumenti se per esempio si desidera avere una somma da poter smobilitare all’occorrenza, in caso di bisogno di liquidità.
Monete d’oro e metalli
Investire in metalli preziosi, oro in primis, è sempre stato considerato sicuro e da tenere in considerazione come assicurazione sul futuro. Benché sia ritenuto come un bene rifugio, va detto però che l’oro è un bene “complesso”: tendenzialmente aumenta il suo valore nel corso del tempo, ma la dinamica dei prezzi è condizionata da molteplici variabili macroeconomiche e finanziarie.
Comprare monete e lingotti, inoltre, non restituisce interessi, ma diventa una riserva di valore da tenere immobilizzata, appunto, per un domani. Più di un esperto suggerisce sì, di acquistare oro e metalli preziosi, ma sempre in un’ottica di diversificazione, all’interno di un portafoglio con altri prodotti, e dove i metalli costituiscono al massimo il 5-10% del totale.
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